giovedì 17 novembre 2011

Il Kamut, ci hanno raccontato una favola?

Ha buone proprietà nutrizionali ed è eccellente per la pastificazione, ma non è stato “risvegliato” da una tomba egizia e non è adatto ai celiaci. Inoltre viene coltivato e venduto in regime di monopolio, ha un costo eccessivo, e una pesante impronta ecologica. Luci ed ombre del Kamut – o meglio, del Khorasan: un tipo di frumento che tra l’altro abbiamo anche in Italia
di Massimo Angelini

“Kamut” non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come “Mulino Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut International ltd (K.Int.) ha posto su una varietà di frumento registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in regime di monopolio e famoso in tutto il mondo grazie ad un’operazione di marketing senza precedenti.
C’è chi chiama questa varietà il “grano del faraone” perché si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà del secolo scorso in una tomba egizia ed inviati nel Montana, dove dopo migliaia di anni sono stati “risvegliati” e moltiplicati. Il frumento prodotto e venduto con il marchio Kamut è coltivato negli Stati Uniti (Montana) e nel Canada (Alberta e Saskatchewan), sotto lo stretto controllo della famiglia Quinn, proprietaria della società K.Int.; in Italia è importato solo da aziende autorizzate e può essere macinato solo da mulini autorizzati. Tutti i prodotti che portano il marchio sono preparati e venduti sotto licenza della K.Int e sotto il controllo della Kamut Enterprises of Europe.
Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo ritrovamento, l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali ed una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine. Parliamone.
Il Frumento orientale o Grano grosso o Khorasan – lo chiamiamo col suo nome tramandato, comune e “pubblico”, mentre Kamut è un nome di fantasia registrato – è una specie (Triticum turgidum subsp. turanicum) appartenente allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto) alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di quella di qualunque altro frumento; è originario della fascia compresa tra l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è il nome di una regione dell’Iran); nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravissuto all’espansione del frumento duro e tenero.

L’invenzione commerciale del ritrovamento Dunque, per trovare il Khorasan in Egitto non era (e non è) davvero necessario scomodare le tombe dei faraoni; senza contare che un tipo di Khorasan era (e, marginalmente ancora è) coltivato anche tra Lucania, Sannio e Abruzzo: è laSaragolla, da non confondere con una omonima varietà migliorata di frumento duro ottenuta da un incrocio e registrata nal 2004 dalla Società Produttori Sementi di Bologna. Inoltre non bisogna dimenticare che la germinabilità del frumento decade dopo pochi decenni, per quanto ideali siano le condizioni di conservazione.
Tutto questo porta ariconoscere nella storia del presunto ritrovamento del Khorasan/Kamut solo una fantasiosa invenzione commerciale, eleborata per stimolare il desiderio di qualcosa di puro, antico ed esotico. E, a onor del vero, la stessa K.Int. ha preso le distanze salla leggenda che, prealtro, ormai non ha più bisogno di essere incoraggiata. Dai dati oggi disponibili, di fonte pubblica e privata, tra gli elementi di maggiore caratterizzazione del Khorasan ci sono un elevato contenuto proteico, in generale superiore alla media dei frumenti duri e teneri, e buoni valori di beta-carotene e selenio; per le altre componenti qualitative e nutrizionali non ci sono differenze sostanziali rispetto agli altri frumenti.
Glutine: non ne è né privo né povero
Bisogna, infatti, chiarire che, come ogni frumento, il Khorasan è inadatto per l’alimentazione dei celiaci, perché contiene glutine (e non ne è né privo né povero, come, poco responsabilmente, una certa comunicazione pubblicitaria afferma o lascia intendere) e ne contiene in misura superiore a quella dei frumenti teneri ed a numerose varietà di frumento duro.

Restano ancora tre aspetti che gettano un’ombra sul prodotto a marchio Kamut (ma non sul Khorasan!): ·
il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più di chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e tramandato; ·
il costo eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200% in più di una pasta di comune grano duro biologico), poco giustificabile a sostanziaòe parità di valori qualitativi e nutrizionali, dovuto al regime di monopolio, ai costi di trasporto, ai diritti di uso ed ai costi di propaganda, ma dovuto anche agli effetti di un mercato dell’eccellenza che trasforma il cibo in oggetto di lusso, di gratificazione e di distinzione, e che specula sul desiderio di rassicurazione e sul bisogno di salute;
· la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto perlopiù coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole attraverso una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che, solo per questo fatto, non è compatibile con la filosofia della decrescita e con l’attenzione al consumo locale, fatto se possibile a “chilometro zero”. http://www.donnagnora.it

3 commenti:

  1. Ciao Sianna, sono davvero molto felice di leggere questo post, anche io sono una "anti-Kamut" e anche io quando ho scoperto "la storia", ho cercato di pubblicizzarla riportandola sul mio blog e facendo un intervento in una pagina di VeganBolg. Ho scoperto il Kamut quando ho cominciato a cucinare da sola ed ero in cerca di cose buone e diverse dal solito, e come tanti mi sono fatta trascinare dall'allucinazione collettiva secondo cui il Kamut è più buono, più sano, più verde, più biologico (perchè poi?!), insomma più tutto! Poi mi sono informata e ho scoperto qual è la verità. Quello che mi stupisce maggiormente è che questo marchio (chiamiamolo pure per quello che è!) sia così diffuso tra persone che hanno scelto la strada vegetariana o vegana. Queste scelte, che conosco bene, e che a volte sono anche drastiche, si compiono la maggior parte delle volte per motivi etici, ma non è che per un'etica spiccia e facilmente condivisibile ci dimentichiamo di qualcosa di più grande? Un prodotto è etico e sostenibile se lo è per tutto il suo ciclo vitale, nessuno si è mai chiesto a quanto ammonta per esempio l'emissione di CO2 in atmosfera per trasportare il nostro pacchettino di farina? Qual è esattamente il suo impatto ecologico? Permettimi il paradosso, ma siamo sicuri che per salvare gli animali vogliamo uccidere il pianeta? Non sarebbe meglio mangiare del grano prodotto dietro casa, che magari si chiama meno "esoticamente ma semplicemente" grano?

    Come diceva la mia prof delle medie: "o sapere o zappare"

    Grazie per diffondere questa notizia.

    RispondiElimina
  2. Io non ho mai mangiato il kamut, soprattutto per i costi. Ho appena scoperto questa notizia e trovo che sia una di quelle cose assurde che spesso accadono ai nostri giorni. Sei hai altre notizie di questo genere le pubblico volentieri. :))

    RispondiElimina
  3. Sicuramente! Anche tu tienimi informata!

    Buona domenica :)

    RispondiElimina

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...